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Psicanalisi e rifugiati

  • Immagine del redattore: Luna Berghella
    Luna Berghella
  • 7 mar 2019
  • Tempo di lettura: 1 min

Aggiornamento: 9 mar 2019

Viriginia de Micco, si è posta il problema di quale possa essere il lavoro psicanalitico con i migranti ed i rifugiati.

L’urgenza è quella di calarsi nei panni di individui che si trovano nella difficoltà di attribuire una nuova forma alla propria immagine psichica.

Non siamo solo noi a relazionarci con chi definiamo “straniero”, perché l’individuo in questione si ritrova a dover fare i conti con l’elaborazione del lutto per la perdita della propria identità, con il trauma causato dalla disillusione rispetto un futuro ben diverso da quello idealizzato e la lunga e faticosa accettazione della nuova realtà interna ed esterna.

Il migrante è un individuo che nel tempo è diventano ignoto a se stesso.

L’emergenza allora diviene il ‘’non pensato’’, ovvero, tutto ciò che la persona rifiuta a causa del dolore che il processo di autoriconoscimento potrà generare, un dolore legato alla paura di ammettere l’esistenza di parti di sé sconosciute.

Parte grossa del lavoro psicanalitico, consisterà allora nel concedergli di recuperare tutto ciò che per noi nel quotidiano rappresenta una “rassicurante ovvietà” , costruire dunque uno spazio d’incontro tra l’uomo e la sua estraneità “[…] ricordando con le parole della Szimborska “che solo ciò che è umano può esserci straniero”.

 
 
 

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